Antico, moderno, antico

Di Mauro Zennaro

2016

 
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La scrittura capitale romana è stata per molti secoli uno standard grafico. Diffusa in tutto l’Impero, eseguita ovunque con le stesse modalità, costituiva la vera “immagine coordinata” di Roma, anche perché la struttura del potere romano era appunto riassunta nelle quattro lettere dell’acronimo SPQR. La capitale, che conosciamo bene nella sua forma epigrafica, era una scrittura bilineare, dunque “maiuscola”, anche se non mancavano versioni corsive e private, meno regolari, che nei secoli contribuirono a formare le minuscole. Queste, cioè, non erano che maiuscole deformate dall’uso veloce e, nel corso di secoli, hanno finito col costituire una modalità grafica a sé.

Nel medioevo e con l’avvento del cosiddetto particolarismo grafico, l’uniformità grafica scomparve e ovunque nacquero e si svilupparono scritture locali che oggi, all’occhio profano, possono non sembrare neppure lontane parenti di quella romana.
Con il Sacro Romano Impero carolingio e la riaffermazione di un potere centrale, la capitale tornò in auge. Fu questa una rinascita artificiale, voluta da Carlo Magno e dal suo “grafico”, il monaco britannico Alcuino di York, per dare all’impero un volto solenne, millenario, classico. La capitale romana fu allora usata soprattutto in versione libraria, accanto all’onciale e alla nuova minuscola detta carolina.

Della capitale, nel IX secolo, si conoscevano solo gli esempi epigrafici dei ruderi antichi, che avevano perso la rubricatura (ovvero la colorazione in rosso delle lettere) perché tutti i colori degli antichi monumenti, prodotti con pigmenti naturali, si erano sbiaditi. La civiltà romana, dunque, già allora appariva bianchissima.
Per questo, probabilmente, la nuova carolina, al contrario di tante scritture locali medievali, era chiara, abbondantemente spaziata e interlineata: la pagina doveva apparire più bianca possibile.

LETTERE ROMANE

Colonna Traiana, Roma. Particolare del basamento e dell’iscrizione.

La carolina si diffuse in tutto il nuovo impero e, com’era naturale, assunse tipizzazioni leggermente diverse a seconda dei vari scriptoria in cui veniva prodotta. Ma la scrittura, fino all’invenzione della tipografia, non ha mai cessato di evolversi e di cambiare, specialmente in assenza di una rete di comunicazione capillare tra centro e periferia, come nel Medioevo. Chi scrive a mano, infatti, disegna forme da un modello e, una volta apprese, continua a tracciarle con la propria mano e con una propria grafia, ovvero le tipizza, cioè ne mantiene la struttura alterandone leggermente la forma con caratteristiche proprie. Nell’insegnare a scrivere, il maestro propone all’allievo (nei secoli passati, entrambi praticamente sempre maschi) una sua grafia, che quest’ultimo adotterà modificandola in un suo stile, lievemente diverso. E così via.

Quando nacque e si diffuse in Europa l’università, nell’XI secolo, vi fu una improvvisa e crescente domanda di libri, che però la tecnologia produttiva (la penna) poteva soddisfare con difficoltà. Gli stationarii, ovvero gli editori universitari a cui il Senato accademico appaltava l’attività di produzione e vendita del libro, dovettero in breve tempo far fronte a una domanda di libri sempre crescente, che avrebbe necessitato di un sistema di produzione industriale. È in questo periodo che nasce l’esigenza di tecniche scrittorie più veloci e precise. Ma la stampa a caratteri mobili era purtroppo ancora lontana.
Il libro, tuttavia, non poteva essere prodotto ancora con il sistema antico e monastico, in cui uno o più – ma comunque pochi – amanuensi scrivevano tutto il testo, in un lavoro lungo e minuzioso e nella scrittura adottata in quel preciso monastero e in quel preciso momento storico. Tale pratica, sebbene lenta, aveva i suoi vantaggi: innanzitutto quello di dare allo (raramente alla) scrivente un’idea d’insieme dell’opera che stava copiando, ovvero di essere consapevole del suo lavoro e di accrescere la sua cultura. Ma tali esigenze, ovvie nell’ambiente monastico in cui la preghiera, e dunque lo studio delle Scritture, era di fondamentale importanza, non collimavano con quelle “industriali” del mondo moderno, ovvero con una produzione libraria universitaria che doveva far fronte a un numero elevato di studenti. Per questo gli stationarii idearono un tipo di lavorazione grafica a “catena di montaggio”, che consisteva nella frammentazione del libro in segnature separate, dette peciae, ovvero le “pezze” (i rettangoli di pergamena ricavati dalla singola pelle dell’animale piegati in quattro). Ogni pecia veniva affidata a uno scriba diverso, poteva essere venduta separatamente e, molto spesso, affittata. In questo modo un gruppo di scribi poteva comporre un libro in poco tempo e qualunque studente poteva noleggiare la pecia di suo interesse e copiarsela con comodo. Gli studenti, quindi, spesso producevano da sé i proprio libri copiandoli dagli originali.

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Scriba. Dettaglio della Cappella Sistina

La manodopera scrittoria, non più monastica, compiva un lavoro faticoso, scarsamente retribuito e oltretutto poco interessante perché non aveva mai un quadro d’insieme del libro su cui stava lavorando. Non a caso, molti studenti (un tempo sinonimo di squattrinati) lavoravano part-time presso i laboratori editoriali. È sintomatico il fatto che per la prima volta, se si eccettuano pochi monasteri femminili, anche alle donne venne concesso di prendere in mano la penna e di scrivere: il salario era scarso e la possibilità di crescita culturale nulla. Le donne, escluse da sempre dalla cultura, erano dunque impiegate in mansioni sì culturali, ma solo come esecutrici ed escluse dallo studio. È in questo periodo che la minuscola carolina cambiò radicalmente.

Come già visto, le tipizzazioni delle scritture sono infinite e inevitabili: ognuno/a di noi ha imparato a scrivere secondo un certo modello – mediamente derivato dalla cosiddetta corsiva inglese – e ha adottato poi una sua grafia, senza discostarsi troppo dal modello ma anche personalizzandolo. Ma, pur attraverso molti cambiamenti, con la stampa è possibile riproporre sempre lo stesso modello, che ognuno tipizza a modo suo. Prima di Gutenberg, invece, l’insegnamento avveniva direttamente da maestro ad allievo, e il maestro insegnava la sua tipizzazione. È naturale, dunque, che a distanza di tempo e senza un controllo superiore e centralizzato – come avveniva in epoca romana – a un certo punto si arrivasse a forme ormai distanti dal modello e che andavano a costituire modelli a sé. Questo procedimento, che potremmo definire di tipizzazione estrema, si chiama canonizzazione.

Vi sono esempi di carolina tipizzati, anzi: in ogni scriptorium è riconoscibile un tipo proprio. Ma è nel momento della nascita e della diffusione dell’università che prende piede una deformazione della carolina decisamente diversa da quella progettata da Alcuino e dai suoi designer e che, non a caso, viene definita littera moderna. O, come è stata poi chiamata in modo denigratorio dagli umanisti, gotica.
La gotica, è bene dirlo subito, non ha niente a che fare con i Goti, i quali si spostarono nell’Europa centro-meridionale verso la fine dell’epoca imperiale romana. La parola “gotico”, come è noto, divenne sinonimo di barbaro, ed è per questo che gli intellettuali, a partire dal Trecento, definirono in questo modo la littera moderna, ai loro occhi indegna di comporre le forme grafiche dei grandi classici antichi.

Ma andiamo con ordine. La minuscola carolina, dominante nel panorama grafico, venne adattata per la redazione dei testi universitari, i quali si uniformarono a un modello preciso. La pagina era generalmente composta a quattro colonne, delle quali due centrali riportavano il testo classico e due laterali, a forma di parentesi quadre, le contenevano e ospitavano il commento del professore, che costituiva la vera lezione. Il dato graficamente interessante è che il commento era impaginato nello spazio più prossimo al testo cui si riferiva, visivamente attiguo e dunque immediatamente collegabile. Per fare ciò era necessaria una grande perizia progettuale ma soprattutto le copie del testo universitario, esaminate e approvate dall’ateneo, dovevano essere identiche non solo nel testo – quindi espunte da errori – ma anche nell’impaginazione, in modo da conservare l’immediata corrispondenza testo originale-commento. Un lavoro più che da certosini: da meccanici di precisione.

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Raffinata scrittura Carolingia. Nuovo Testamento, Tours (IX Secolo)

Non credo si possa affermare che la scrittura gotica sia stata progettata per questo scopo, ma certamente la necessità di uniformare i segni di tante persone diverse ha contribuito a irrigidire i tratti della carolina fino a farne una scrittura spezzata, rigida, composta da tratti uguali, spaziata in modo uniforme, scarsamente interlineata perché l’esigenza fondamentale era diventata la produzione in serie, dunque il risparmio di pergamena o di carta. La littera moderna era divenuta un attrezzo di lavoro, oltre che un canone. La gotica è fatta di tanti “mattoncini” tutti uguali (come il Lego).
La gotica non rimase solo in ambito universitario ma prese piede in tutta Europa come scrittura colta, tipizzandosi in forme più strette rigide e spezzate – non a caso denominata fraktur – nei paesi nordici e tondeggianti al Sud, particolarmente in Italia, dove venne definita rotunda (e qui, mi rendo conto, si apre il campo a innumerevoli stereotipi…).
Alcuni tipi di gotica, dall’andamento più rapido e con ascendenti e discendenti più pronunciate, furono usate come scritture professionali e burocratiche. Le tre copie coeve della Commedia dantesca, della quale l’originale è andato perduto, sono appunto scritte in questo modo, come aveva fatto Dante.

The slow transition from Carolingian to Gothic script.

La lenta transizione della scrittura Carolingia al Gotico, dall’alto: X secolo, XII secolo, XIV secolo.

Manoscritto in Gotica Rotonda, Italia, prima del 1450

Manoscritto in Gotica Rotonda, Italia, prima del 1450

In Italia, come già detto, la gotica perse il privilegio di scrittura colta con gli umanisti, primo fra tutti Francesco Petrarca, che, come già Carlo Magno e Alcuino, vedeva nel biancore delle vestigia romane il simbolo della classicità. Per di più, in mancanza di criteri scientifici di datazione e di vere e proprie competenze paleografiche, i codici carolingi vennero ritenuti, dagli umanisti, romani antichi, con tutto quello che ne conseguiva. Nelle pagine carolinge apparivano bei titoli in capitale e intere colonne in onciale: l’attribuzione ai Romani era scontata. L’amore per la classicità portò gli umanisti alla scoperta del moderno lavoro filologico, necessario per districarsi fra tante copie di copie di copie medievali disseminate di errori. Dobbiamo a loro la nostra conoscenza della lingua latina classica.
Gli intellettuali pre-gutenberghiani dovevano necessariamente essere anche calligrafi e farsi i libri da sé, dato il costo esorbitante di questi. Petrarca dunque si mise all’opera per “alleggerire” la gotica e i suoi seguaci – Poggio Bracciolini e Coluccio Salutati fra i principali – disegnarono bellissime versioni della carolina, più moderne, adatte ad essere composte con le maiuscole romane, chiare ed eleganti, perfette per scrivere Cicerone, Quintiliano, Ovidio e tutti gli altri. Essendo modernissima, la nuove scrittura fu ovviamente chiamata littera antiqua.
Poi arrivò Gutenberg che, essendo tedesco, incise i suoi punzoni in forme moderne, cioè gotiche. L’antiqua, su al Nord, non era arrivata.

Bibbia di Gutenberg, circa al 1454, con carattere gotico Textura

Poi Sweynheim e Pannartz portarono la stampa in Italia e adattarono i loro caratteri al gusto nostrano (anche se, agli inizi, in modo piuttosto rigidino…).
E poi la grande tipografia italiana, Francesco Griffo in testa.

Sweynheym & Pannartz, Subiaco, 1465

Sweynheym & Pannartz, Subiaco, 1465

De Aetna. Aldo Manuzio, Venezia, 1496. Con caratteri di Griffo.

Ma la fortuna della gotica è stata comunque immensa. In alcuni ambiti, quali la giurisprudenza e la teologia, i libri italiani hanno continuato ad essere stampati in gotica a lungo, alcuni anche nel Seicento. E nei paesi nordici, dove la gotica ha continuato a essere la scrittura usuale, soprattutto per mantenere le distanze grafico-culturali tra protestantesimo e cattolicesimo, lo stile “romano” non si è imposto che in tempi recenti. In Germania Adolf Hitler abolì la gotica nel 1941, quando si rese conto che nei paesi occupati nessuno era in grado di leggere i suoi deliranti proclami, e dichiarò, per trarsi d’impaccio, di aver scoperto che quella scrittura tanto germanica era in realtà di origine ebraica.

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Luca Barcellona, scrittura gotica Textura.

Oggi la povera scrittura universitaria e coltissima, divenuta sinonimo di ferocia fantasy, oscurità medievale ed esoterismo approssimativo, fa mostra di sé nel merchandising dei gruppi heavy metal e nei tatuaggi di periferia, a dimostrazione che la forma e la storia della scrittura sono ancora patrimonio ignorato dalla cultura di massa.

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